Il divario Nord-Sud: 160 anni di (dis)unità |I dati

Nel suo intervento al festival dell’economia di Trento del 2020 il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha dichiarato: “La distanza del Mezzogiorno rispetto al resto dell’Italia è la più grande distanza tra un’area in via di sviluppo e un’area sviluppata nell’ambito dell’Unione Europea.”

Dall’unità al 2010 il reddito medio degli italiani è aumentato di tredici volte e l’Italia è diventata, da povera e agricola quale era, una delle nazioni più avanzate nel mondo. Tuttavia, come comprovato dai recenti dati Istat del 2018, il paese ancora versa in una condizione di forti squilibri regionali. Il Pil pro capite nel Nordest ha superato i 36 mila euro, seguono il Nordovest (35 mila) e le regioni del centro (31 mila). Appaiono invece drammatici i dati del Mezzogiorno. Il Sud e le isole registrano, infatti, un reddito per abitante di 19 mila euro, poco più della metà di quello delle regioni del Nord e solo il 60 per cento rispetto alla media del Centronord.

Il tasso di povertà nel 2020, acuito dallo scoppio dell’emergenza sanitaria, ha subito un notevole incremento specialmente nelle aree del Nord, che sono state l’epicentro della pandemia, attestandosi ora al 7,6%. Ciononostante resta il Meridione il territorio dove è presente il maggior numero di individui poveri (9,3%). Rende noto l’INPS che,tra i percettori del reddito di cittadinanza nei primi mesi del 2021, oltre i due terzi del totale sono residenti al Sud. Primeggia tra le regioni la Campania.

Un divario importante esiste anche nel livello di istruzione tra gli abitanti delle regioni italiane. La quota di diplomati è del 51,4% nel Mezzogiorno, nettamente inferiore al 63,1% del Centro e al 60% del Nord. Situazione analoga per i laureati tra i 30-34 anni: 26,4% al Centro, 23,9% nel Nord e solo del 20,5% nel Mezzogiorno. Il dato più allarmante lo si riscontra nei cosiddetti Neet, ossia i giovani che non studiano e non lavorano, quota che si attesta nel 2011 al 31,4% nel Mezzogiorno rispetto al 15,2% del Nord e al 19,2% del Centro. Altrettanto preoccupante è il tasso di abbandono scolastico messo in evidenza dalla “Relazione di monitoraggio del settore dell’istruzione e della formazione 2020” della Commissione europea: la dispersione scolastica si attesta al 9,6 % nel nord-est (addirittura al di sotto della media europea del 10,2 %) e a un drammatico 16,7 % nel sud. 

Come testimoniano i numeri, le discrepanze tra le due aree geografiche del Bel paese sono evidenti e affondano le loro radici in tempi non molto lontani. La causa principale del ritardo economico del Sud è stata la sua mancata industrializzazione. Infatti, soprattutto nel caso di nazionivaste, lo sviluppo industriale non può interessare tutto ilterritorio allo stesso modo, ma è assai probabile cheriguardi inizialmente soltanto alcune aree o poli di crescita. Di conseguenza, fu il decollo economico a originare gli squilibri regionali, lasciando il Sud nell’arretratezza dell’agricoltura. Le due guerre mondiali, a loro volta,contribuirono ad accrescere le disparità territoriali, con ingenti risorse destinate dallo Stato all’industria del Nord, per fronteggiare l’impellente fabbisogno bellico.

Un barlume di speranza si intravide negli anni Cinquanta quando l’Italia fu protagonista, assieme a gran parte dei paesi OCSE, di un forte processo di convergenza, che ridusse le marcate distanze con grandi potenze mondiali, tra cui gli USA e l’Inghilterra. Il boom economico favorì anche le regioni interne, in particolare quelle più povere del Meridione. Furono decisivi due interventi: la riforma agraria, per la quale furono assegnate ai contadini molte proprietà terriere e ciò intensificò la produzione agricola del Sud, e la Cassa per il Mezzogiorno, con la predisposizione di una serie di programmi finalizzati alla realizzazione di opere straordinarie e di pubblico interesse, dirette «al progresso economico e sociale dell’Italia meridionale» (l. 646/10 agosto 1950).  Gli investimenti crebbero notevolmente raggiungendo il massimo storico negli anni 1971-75. In questi anni nelle regioni del Mezzogiorno sorsero poli industriali nei settori della siderurgia, chimica e petrolchimica, con una consistente riduzione del divario tra le due aree del paese. L’Istituto Bruno Leoni ha stimato che l’intervento straordinario nel Mezzogiorno in quarant’anni è costato 279.763 miliardi di lire (circa 140 miliardi di euro).

Malgrado gli ingenti investimenti, la classe dirigente non riuscì a realizzare un apparato produttivo efficiente in grado di sostenere la crescita autonoma del Sud; dunque l’industrializzazione era avvenuta solo in maniera parziale.Nella seconda metà degli anni Settanta la fase di espansione era ormai in declino e la grave crisi del petrolio accelerò la fine della convergenza, colpendo principalmente le imprese dei settori energetici che costituivano l’apparato industrialedel Meridione. L’intervento straordinario si concluse negli anni Novanta, con l’avvio di severe restrizioni fiscali finalizzate all’adesione dell’Italia all’Unione Europea, dalle quali conseguì una riduzione degli investimenti nelle aree più arretrate e una nuova fase di divergenza. 

In sintesi, sebbene siano diverse le cause del ritardo economico del Meridione, a partire dalla maggiore incidenza della criminalità, che sopprime la crescita,insieme allo scarso attivismo civico e politico, nonché idiffusi fenomeni di clientelismo e inefficienza nella gestione delle risorse, per finire con la posizione geografica che allontanava il Sud dal resto d’Europa, fu in realtà la parziale e limitata industrializzazione il nodo mai sciolto della questione meridionale.

Dalle ricerche del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro emerge che la pandemia di Covid-19 abbia evidenziato tale divario, mettendo a nudo le debolezze del paese, derivanti dai “mancati investimenti negli ultimi 20 anni nei servizi sociali, nella scuola, nell’università, nella digitalizzazione e nelle infrastrutture”. Il dato più drammatico della relazione del Cnel lo si ritrova nelle aspettative di vita: a Napoli si vive 10 anni in meno rispetto a Milano. Un divario socialmente ed eticamente inaccettabile.

Lo scorso 30 aprile è stato inviato alla Commissione Europea il “Piano nazionale di ripresa e resilienza”, ossia il resoconto delle riforme che l’Italia intende avviare fino al 2026 come contrasto alla recessione dovuta alla pandemia. Al Mezzogiorno, a cui è dedicato un intero capitolo del documento, saranno destinati il 40% delle risorse, circa 82 miliardi. L’obiettivo, stando alle parole del Presidente del Consiglio dei ministri, Mario Draghi, è “far ripartire il processo di convergenza tra sud e centro-nord che è fermo da decenni. […] Tra il 2008 e il 2018 la spesa pubblica per investimenti nel Mezzogiorno si è più che dimezzata, e questo divario va superato”. Il Recovery plan rappresenta un’iniziativa storica, non è soltanto un primo passo verso la devoluzione fiscale nei confronti dell’Unione Europea e la creazione di un bilancio comune, ma soprattutto un’occasione fondamentale per colmare il divario tra le due aree del paese. Come affermato da Draghi nell’intervento di illustrazione del piano alla Camera: “Nel Pnrr c’è la misura di quello che sarà il ruolo dell’Italia nella comunità internazionale, la sua credibilità e reputazione come fondatore Ue e protagonista del mondo occidentale. È questione non solo di reddito e benessere, ma di valori civili e sentimenti che nessun numero e nessuna tabella potrà mai rappresentare. […] Sbaglieremmo tutti a pensare che il Pnrr pur nella sua storica importanza sia solo un insieme di progetti, numeri, scadenze. Nell’insieme dei programmi c’è anche e soprattutto il destino del Paese”.

Gianmarco Accardo

L'ora di Economia

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